Le cifre sono allarmanti: l’80% delle acque dolci del pianeta sono già contaminate o a rischio contaminazione. Da questa minaccia sono toccati circa 3,4 miliardi di persone, quasi la metà della popolazione mondiale. E la situazione rischia di peggiorare nei prossimi anni, a causa dei danni provocati dal cambiamento climatico e dalla costante crescita della popolazione.
L’allarme lo lancia un articolo scientifico pubblicato sulla rivista Nature e firmato da un’equipe di studiosi guidata da Charles Vorosmarty della City University di New York e da Peter McIntyre dell’Università del Wisconsin. Lo studio è importante perché può essere considerato quello che “per la prima volta raccoglie tutta la nostra conoscenza sotto un unico modello globale di sicurezza delle acque e perdita della biodiversità”, secondo Gary Jones, direttore dell’eWater Co-operative Researce Centre di Canberra, in Australia.
Il quadro che emerge dallo studio di Nature è quello di un pianeta in cui le risorse idriche sono sfruttate in modo complessivamente squilibrato. Attualmente l’approvvigionamento dell’acqua, potabile e non, deriva prevalentemente da un lavoro di ingegneria. Dighe, drenaggi e riserve sono il modo in cui l’uomo risolve i problemi della scarsità e dell’inquinamento delle falde. La soluzione tecnologica ha però due controindicazioni. La prima è nei costi, che per tenere la situazione in equilibrio dovrebbero aggirarsi, secondo gli autori dello studio, intorno agli 800 miliardi di dollari annui entro il 2015.
La seconda è che tali costi sono insostenibili per chi non fa parte del “club” delle nazioni industrializzate ricche o emergenti, queste ultime rappresentate dai paesi BRIC (Brasile, Russia, India, Cina). Complessivamente non più di un miliardo di persone. Ragion per cui Vorosmarty e MacIntyre suggeriscono di puntare sulla lotta al cambiamento climatico piuttosto che sulla continua manipolazione della natura da parte dell’uomo, che rischia solo di mettere l’ ambiente ulteriormente sotto pressione.
E in Italia, quanto è grave la situazione? C’è rischio anche da noi di stress da sfruttamento idrico, dato il quadro di sprechi, e scarso rispetto dell’equilibrio ambientale? “Il modello di gestione idrica urbana deve essere profondamente rinnovato” risponde Katia Le Donne, dell’ufficio scientifico di Legambiente. L’associazione ha denunciato nel libro bianco sull’emergenza idrica del 2007 e in altri rapporti successivi, la situazione in cui versa il nostro Paese. Al 60% di acqua destinato ad usi agricoli e il 42% di perdita dai tubi colabrodo (con punte del 70% a Cosenza) di una rete di distribuzione che andrebbe completamente rinnovata si aggiunge un costo troppo basso dell’acqua (52 centesimi al metro cubo, la metà della media europea) che induce inevitabilmente allo spreco.
“Da oltre un decennio, sostiene Le Donne, ad occhi esperti di tutto il mondo, risulta sempre più chiaro che il modello di gestione delle acque nelle nostre città – basato sul ciclo: prelievo distribuzione, utilizzo, fognatura, depuratore, e re-immissione finale – non è sostenibile, perché comporta un uso eccessivo di risorse idriche di altissima qualità. Perché, ad esempio, per scaricare un WC si fa uso acqua potabile? Tutto questo genera uno spreco enorme senza ridurre l’inquinamento.
Ma lo studio Nature non rischia di essere la solita scusa degli ambientalisti per non fare nulla? “Non direi, continua Katia. La sfida della gestione della risorse idriche non si riduce alla semplice e demagogica questione: lasciamo tutta scorrere così come natura crea…questo modello anche sarebbe tanto insostenibile per quanto improponibile alle società di oggi. Al contrario chi si occupa di Ambientalismo Scientifico propone un nuovo approccio uno addirittura più complicato di quello che ci hanno proposto e imposto finora e che è altrettanto insostenibile come il primo. La via d’uscita, invece, è quella di superare l’approccio per cui prima si sommano le richieste idriche (industriali, agricole, civili) e poi si cerca disperatamente di soddisfarle”. Un buon consiglio per il pianeta a cui certo l’Italia non sfugge.
da il fatto quotidiano del 30 settembre 2010