Dal punto di vista ecologico, i disordini che insanguinano lo Yemen possono essere considerati un caso da manuale: gli effetti del picco del petrolio combinati a quelli del picco dell’acqua.
Se l’egiziano Mubarak fu il primo leader mondiale a perdere il posto a causa del global warming, il presidente yemenita Ali Abdullah Saleh (in ospedale perchè gravemente ferito in un attentato) e il suo vice Abdu Rabu Mansoor Hadi si trovano ora al timone di un guscio di noce in balia dello tsunami generato dall’esaurimento di due fondamentali risorse naturali.
Gli yemeniti sono molto poveri e per un terzo disoccupati. Stanno finendo quel poco petrolio che avevano. E soprattutto stanno finendo l’acqua. Si può stare senza benzina e senza energia elettrica: ma senz’acqua no.
Lo Yemen non è mai stato un Paese particolarmente ricco di petrolio. La produzione ha raggiunto il massimo nei primissimi anni di questo XXI secolo: e di lì in poi è cominciato il declino, accompagnato da un maggior consumo interno che alleggerisce sempre più le esportazioni.
Negli ultimi quattro anni l’esportazione è diminuita in media del 20% all’anno, e si crede che il petrolio yemenita sarà esausto per il 2017.
Ciononostante, anche per la presenza degli oleodotti che attraversano il territorio nazionale, il 70% degli introiti dello Stato dipende dalla tassazione sul petrolio, e al petrolio è legato il 25% del prodotto interno lordo.
E ora il rubinetto a poco a poco si prosciuga. Ma senza petrolio, dicevo, si può vivere. Senza acqua no. E da questo punto di vista lo Yemen è messo davvero male.
I Paesi arabi comprendono il 5% della popolazione mondiale, ma hanno solo l’1% delle riserve di acqua dolce rinnovabile. Per cui nello Yemen hanno sfruttato le falde sotterranee d’acqua, che – in tutto il mondo – si riempiono ad un ritmo molto più lento rispetto all’estrazione operata dall’uomo.
Hanno usato quest’acqua per bere e per lavarsi? Macchè. O meglio, solo in minima parte. L’hanno usata al 90% per l’irrigazione. Secondo le statistiche planetarie, “solo” il 70% dell’acqua viene usata per irrigare i campi. Nei Paesi arabi la media sale all’85%.
Beh, si dirà, anche nello Yemen devono pur mangiare… Ma proprio questo è il punto. Fino a qualche decennio fa i campi erano dedicate a colture alimentari che si accontentavano della scarsa acqua piovana, senza intaccare le riserve sotterranee.
Poi lo Yemen è passato dalle colture per il sostentamento locale alle più redditizie colture destinate al mercato: frutta (tipo banane e manghi) e quat, un blando stupefacente molto popolare nello Yemen stesso, in Arabia Saudita e nel Corno d’Africa.
A queste coltivazioni non basta la pioggia. Hanno bisogno di irrigazione. E così lo Yemen ha cominciato a tirar su acqua dal sottosuolo, col risultato i pozzi devono spingersi sempre più in basso: anche di una ventina di metri all’anno.
Fra un 10-15 anni, si calcola, le falde saranno esaurite. Ma già adesso gli effetti dell’acqua sempre più scarsa e sempre più difficile da trovare si fanno sentire. Lo Yemen ha sete.
Fra l’altro, per scavar pozzi e azionare le pompe ci vuole il petrolio, l’altra cosa che nello Yemen ha smesso di essere abbondante. E come se non bastasse i disordini di queste settimane impediscono di distribuire acqua e carburante. Un circolo vizioso che si autoalimenta avvitandosi su se stesso.
Lo Yemen è un Paese povero e lontano. Ma nessun posto al mondo offre risorse naturali inesauribili: e in questo senso lo Yemen è un paese pilota. Spiace che si guardi soprattutto all’epifenomeno delle lotte politiche e tribali, e non allo tsunami ecologico che le ha innescate.