Non solo le dighe cinesi a rischio dopo il sisma. Gli invasi costruiti in tutto il mondo sono causa di disastri naturali e minacciano di scatenare guerre. Ecco la mappa di quelli più contestati.
C’è solo una risorsa più preziosa del petrolio. Dopo i bombardamenti per il greggio e le rivolte per il riso e il frumento, le prossime guerre rischiano di scoppiare per l’acqua: in un mondo sempre più caldo, inquinato, affamato e sovrappopolato, il controllo delle risorse idriche diventa una priorità economica con un valore strategico. E se fino a ieri le grandi dighe che alterano la distribuzione naturale delle acque erano viste da politici e tecnici come rimedi alla scarsità di terreni irrigabili e come fonte di energia pulita, oggi i maxi-impianti idroelettrici cominciano, al contrario, a essere discussi e contestati come cause di disastri ambientali, carestie, malattie e scontri armati, soprattutto nelle aree più povere e assetate. Il caso più recente e clamoroso riguarda la Cina, ma l’onda delle critiche è globale: scienziati autorevoli e associazioni umanitarie stanno attaccando opere e progetti, sia per i modi di realizzare che per gli interessi sottostanti, dall’India al Brasile, dall’Africa nera al Medioriente.
Con oltre 22 mila grandi dighe già costruite la Cina possiede circa metà del totale degli impianti mondiali e ha forti interessi nei più grossi programmi in cantiere in zone a rischio come il Sudan (diga di Merowe, 50 mila abitanti da sfollare dall’alto Nilo verso aree ora desertiche) o il Pakistan (maxi-progetto di DiamerBasha, 8 miliardi di dollari cercati dall’ex presidente Musharaf a Pechino).
La settimana scorsa il ministro cinese per le risorse idriche, Chen Lei, ha ammesso che il disastroso terremoto nel Sichuan ha danneggiato almeno 391 dighe e aperto crepe estremamente pericolose anche nella muraglia di 156 metri che contiene il bacino artificiale di Zipingku, che per fortuna era a metà della sua capacità massima di 1,1 miliardi di metri cubi.
Ultimata nel 2006, questa maxi diga sembrava rispettare i più rigorosi standard anti sismici, a differenza degli altri 390 piccoli e medi impianti più datati che ora minacciano inondazioni spaventose. Il regime comunista smentisce che il terremoto abbia danneggiato la diga delle Tre Gole sul fiume Yangtze, che a tutt’oggi è la più grande del mondo. Approvata nel 1992 è costata 24 miliardi di dollari e ha provocato l’evacuazione di un milione e 200 mila abitanti, sommergendo 116 città. International Rivers, la più famosa e radicata organizzazione non governativa per la tutela dei fiumi, ha da tempo documentato lo scempio ambientale prodotto da questa e altre dighe, come quelle del Mekong. In marzo, prima del terremoto, Scientific American ha pubblicato un’allarmata denuncia, citando geologi, biologi e ingengeri americani e cinesi, sull’aumento di frane e scosse sismiche dopo il riempimento del colossale bacino (660 chilometri per 97). Nel 2003, quando il lago artificiale toccò il primo livello di 135 metri, la pressione delle acque sulle pareti rocciose provocò dozzine di frane e con decine di vittime, mentre l’Università di Guangzhou schedava ben 283 aree di smottamenti. Ma il pericolo maggiore, secondo la prestigiosa rivista scientifica, è che l’interferenza del bacino su due enormi faglie possa provocare gravi terremoti. Un ingegnere dell’accademia cinese delle Scienze ha scritto sul suo sito ufficiale dell’azienda statale delle Tre Gole che, da quando il bacino è salito al secondo livello (settembre 2006), nell’area sono state registrate 822 scosse in sette mesi. All’effetto dei bacini artificiali cinesi sarebbero legati almeno 19 dei terremoti degli ultimi 50 anni.
Tra i precedenti esteri c’è l’anomala serie di sismi registrati in California dopo il riempimento del maxi invaso di Oroville in un area quasi disabitata della Sierra Nevada. E soprattutto il terremoto che nel 1967 provocò 200 morti in India: secondo gli scienziati americani dello US Geological Survey, il sisma fu causato dal peso del bacino creato dalla diga Konya, costruita nel 1963 in una zona a sud di Mumbai che non era considerata sismica.
Le autorità cinesi, che in passato avevano sempre zittito le critiche per motivi di sicurezza nazionale, nel 2007 hanno per la prima volta ammesso che la diga delle Tre Gole ha prodotto pericoli nascosti senza però specificare quali.
Scienziati, ecologisti e associazioni umanitarie non contestano gli impianti idroelettrici in se, ma le scelte dei governi di costruire strutture enormi e costosissime, ingnorandone le ricadute ambientali, sociali e perfino economiche.
Il Lesotho è un piccolo stato africano di due milioni di abitanti, afflitti da una povertà atavica (reddito medio: 2 mila dollari l’anno) e da prolungate siccità: l’anno scorso le Nazioni Unite hanno dovuto distribuire acqua al 70 per cento dei contadini. Eppure, incredibile ma vero, da dieci anni il Lesotho esporta acqua. Nel 1986, in piena apartheid, il governo ha finanziato la diga di Katse, la più grande del continente nero, che dalle Highlands convoglia il fiume Arancione, attraverso giganteschi tunnel verso industrie di Johannnesburg.
Il problema si ripete in Asia: il Laos, uno dei dieci Paesi più poveri del mondo ha varato la maxi diga di Nam Theun 2, che esporterà energia in Thailandia. In attesa dei profitti per ora ha aumentato il debito pubblico e fatto deportare 10 mila persone, minacciando il futuro di altri 120 mila pescatori e contadini.
In Guatemala sono stati gli squadroni della morte a trasferire a forza circa 75 mila discendenti dei maya-achì per fare spazio al grande muro sul Rio Chixoy. La diga, costruita nel 1982, servì alla dittatura militare per deportare intere comunità di oppositori e bollare come guerriglieri gli indigenti contrari. Dieci anni dopo l’intera regione era deforestata, il Guatemala continuava a spendere 150 milioni di dollari l’anno per importare elettricità, il 30 per cento degli abitanti era ancora senza luce e qusi metà del debito nazionale era dovuto ai costi della diga.
Nel 1999 la Commissione per il chiarimento storicho, creata dopo gli accordi di pace del 1996 ha classificato come genocidio almeno 400 uomini, donne e bambini di Rio Negro, trucidati dall’esercito mentre i sopravvissuti venivano deportati.
In India una lunga e pacifica protesta con scioperi collettivi della fame ha rallentato il colossale piano per la costruzione di 3.200 dighe nella valle del Narmada, grande come la Svizzera. La storica audizione al congrssso USA di Medha Pattkar, una ricercatrice diventata l’icona di quella lotta non violenta, spinse la Banca mondiale a nominare una commissione d’inchiesta che nel 1993 condannò il progetto più grande come gross delinquency, portando per la prima volta i banchieri di Washinghton a ritirare prestiti già stanziati. Il malaffare dei governi e l’esplosione dei costi hanno però segnato molti altri impianti. La diga di Yaciretà, che imbriglia il fiume Paranà tra Argentina e Paraguay, è stata definita un monumento alla corruzione dall’ex presidente Carlos Menem, che di favori ai privati se ne intendeva. Subissata dalle critiche, nel 2000 la Banca mondiale ha varato una Commissione mondiale sulle dighe: il rapporto finale, presentato da Nelson Mandela, certifica che i maxi impianti esistenti hanno raggiunto meno del 50 per cento degli obiettivi promessi di irrigazione e meno del 75 per cento di elettricità, ma sono costati il 56 per cento in più del dovuto, hanno provocato incalcolabili danni ambientali (Inquinamento, distruzione della foresta, estinzione della fauna ittica) e negato gran parte delle compensazioni economiche promesse agli evacuati. Da allora Stati come la Svizzera e la Germania condizionano gli aiuti a rigorose verifiche sul consenso informato delle popolazioni. Sotto le presidenze Wolfowitz e Zoellick, però, i banchieri di Washinghton hanno finanziato due nuovi cantieri africani, sdoganando il ritorno al business dell’acqua.
Il progetto di Gran Inga, alle sorgenti del fiume Congo, dove già funzionano due grossi impianti, punta a togliere dalla Cina il primato della diga più del mondo. Il costo finale rischia di superare gli 80 miliardi di dollari, con un debito insostenibile per la Repubblica del Congo, dilaniata da anni di guerra civile. Già avviata dall’anno scorso, con 360 milioni prestati dalla Banca mondiale, p la costruazione di Bujagali, in Uganda. Un progetto contestato dopo che la ong europea Cee-Bankwatch ha collegato agli invasi già in funzione sul Nilo Bianco la riduzione del lago Vittoria, la cassaforte d’acqua di mezza Africa.
Deforestazioni e deportazioni, secondo attivisti locali e ong come Survival, accompagnano i cantieri per le dighe di Kullu, in India, e sul fiume Xingu, nell’amazzonia brasiliana, il polmone verde del Pianeta. E un nuovo fronte di guerra potrebbe aprirsi nel Kurdistan turco, al confine con Iraq e Siria: il governo di Ankara ha rilanciato il progetto della diga di Ilisu, che sembrava bloccato dal 2001.
La ong svizzera Berne Declaration, in ottobre ha denunciato l’inizio di un evacuazione di massa che minaccerà 55mila curdi. In una regione strategica ancora una volta e già insanguinata da attentati e scontri pesanti tra la guerriglia e l’esercito turco.
Da L’espresso di Paolo Biondani