Può darsi che la Storia non si ripeta ma, come annotava Mark Twain, spesso «fa rima ». Le crisi e i conflitti del passato si ripresentano ciclicamente e con spiccate analogie, anche se alterati da nuove condizioni. In questo frangente, ad esempio, si assiste a una corsa alle risorse del pianeta straordinariamente simile al «Grande Gioco» che agitò i decenni poi culminati nella Prima guerra mondiale.
Oggi come allora, il «premio» più ambito è il petrolio e il rischio principale è che, facendosi sempre più incandescente, la disfida abbandoni i toni pacifici. Quel che si dipana sotto i nostri occhi, tuttavia, non è un banale remake del tramonto del Diciannovesimo secolo e degli albori del Ventesimo. Nuovi e potenti protagonisti sono scesi nell’agone, e il petrolio non rappresenta più l’unica posta in gioco.
Fu Rudyard Kipling con Kim, un avvincente romanzo imbevuto di spionaggio e geopolitica imperiale, ambientato ai tempi del Raj britannico e uscito a puntate nel 1900-’01, a traghettare il Great Game nell’immaginario collettivo. Il ruolo di attori-chiave, allora, spettava a Russia e Gran Bretagna, e l’oggetto del contendere era il controllo del petrolio dell’Asia centrale.
Oggi, invece, la Gran Bretagna conta ben poco, e Paesi come l’India e la Cina, soggiogati all’epoca dell’ultima manche, sono assurti al rango di protagonisti. Un tempo, la contesa gravitava principalmente attorno al petrolio dell’Asia centrale. Ora non più. I suoi tentacoli si estendono dal Golfo Persico all’Africa e all’America Latina, sino a toccare le calotte polari. E l’ambito bottino comprende anche le risorse idriche e le riserve (in via di esaurimento) di minerali fondamentali. La vera novità, però, è il riscaldamento globale, che acutizza la mancanza di risorse naturali. Il «Grande Gioco» cui assistiamo oggi è assai più enigmatico e pericoloso della versione precedente.
Il più importante dei protagonisti odierni è indubbiamente la Cina. Proprio qui, infatti, il nuovo paradigma si profila in modo più nitido. I dignitari cinesi hanno puntato tutto sulla crescita economica. Se il tenore di vita della popolazione non accennerà a miglioramenti, si innescheranno disordini e tumulti sociali su larga scala che potrebbero insidiare il loro potere. Se alla crescita inarrestabile non c’è alternativa, è indubbio che i suoi effetti collaterali siano devastanti. Sovrautilizzata nel settore agricolo e industriale, e minacciata dal progressivo ritiro dei ghiacciai himalayani, l’acqua sta diventando una risorsa non rinnovabile.
Due città cinesi su tre già fanno i conti con carenze idriche, mentre i deserti continuano a fagocitare terreni arabili. L’industrializzazione sfrenata acutizza la crisi ambientale, e la continua costruzione di centrali elettriche alimentate a carbone ha un impatto devastante in termini di inquinamento e riscaldamento globale.
Si è innescato un circolo vizioso, e non soltanto in Cina.
Gli attuali ritmi di crescita esigono un massiccio apporto di energia e minerali, per cui gli imprenditori cinesi setacciano ogni angolo del pianeta alla ricerca di nuovi approvvigionamenti. Il risultato è una continua impennata della domanda di risorse che, tuttavia, sono irrimediabilmente limitate. La corsa alle risorse energetiche sta plasmando molti dei conflitti che, con ogni probabilità, agiteranno il secolo venturo. Oltre al pericolo di un altro shock petrolifero con drammatiche ricadute a livello di produzione industriale, si profila il rischio di una carestia planetaria. Senza il costante approvvigionamento di greggio a filiere produttive altamente meccanizzate, i reparti alimentari dei supermercati resteranno quasi tutti vuoti.
Lungi dall’affrancarsi dal petrolio, il pianeta ne dipende più che mai. Non stupisce, dunque, che gli Stati più potenti si affrettino ad aggiudicarsene la rispettiva quota.
Questa nuova fase del «Grande Gioco » non si è innescata ieri, bensì con l’ultimo grande conflitto del Ventesimo secolo, la Guerra del Golfo, che per l’appunto gravitò esclusivamente attorno al petrolio. E anche uno degli obiettivi dell’invasione irachena fu indubbiamente il controllo del greggio del Paese.
Il petrolio resta uno dei protagonisti-chiave del gioco; anzi, oggi è più importante che mai. Con la loro complessa logistica e la forte dipendenza dalla potenza aerea, gli eserciti altamente tecnologizzati comportano un notevole dispendio di energia.
Le nazioni occidentali, che nell’ultima fase del «Grande Gioco» avevano svolto un ruolo di prim’ordine, dipendono oggi dai Paesi produttori di petrolio per l’energia necessaria a restare in campo. E questi ultimi danno prova di sempre maggiore esuberanza.
Se il bruciante sprezzo di Putin verso l’opinione pubblica internazionale urta la sensibilità degli europei, alla fine il Vecchio Continente non può fare a meno dell’approvvigionamento energetico della Russia. E se Chavez attira su di sé le ire del presidente americano Bush, il Venezuela garantisce tuttora il 10 per cento circa delle importazioni petrolifere Usa.
Il presidente Ahmadinejad sarà pure l’incarnazione del diavolo, ma con il petrolio oltre la soglia dei 100 dollari al barile, qualsiasi tentativo dell’Occidente di mettergli i bastoni tra le ruote comporterebbe immensi rischi.
Mentre quest’ultimo si avvia verso il declino, le potenze emergenti hanno dato l’abbrivo a una competizione reciproca. La Cina e l’India si contendono il petrolio e il gas naturale dell’Asia centrale. Taiwan, Vietnam, Malaysia e Indonesia si sfidano per il controllo dei giacimenti petroliferi del Mar cinese meridionale. L’Iran rivaleggia nel Golfo con l’Arabia Saudita, e — assieme alla Turchia — tiene gli occhi puntati sull’Iraq.
Il potenziamento della cooperazione internazionale potrebbe sembrare la soluzione più ovvia; di fatto, però, il progressivo acutizzarsi della crisi delle risorse rende il pianeta sempre più frammentato e diviso.
Siamo ormai lontani dal mondo dei sogni vagheggiato appena un decennio fa, quando alcuni guru di tendenza profetizzarono l’avvento dell’«economia della conoscenza». Si diceva, allora, che le risorse materiali non avrebbero più rivestito alcuna importanza, e che le idee sarebbero divenute il motore della crescita.
Il ciclo economico era scaduto a retaggio del passato, lasciando spazio a un’era di sviluppo infinito. In realtà, l’economia della conoscenza fu soltanto un’illusione alimentata dal petrolio e dal denaro a buon mercato. I boom infiniti, si sa, hanno sempre un triste epilogo.
A fare la differenza, stavolta, è il cambiamento climatico. L’innalzamento del livello dei mari si traduce in un calo degli approvvigionamenti di derrate alimentari e acqua dolce, ciò che potrebbe innescare migrazioni su larga scala di profughi «ambientali», dall’Africa e dall’Asia verso l’Europa. Il riscaldamento globale mette a repentaglio gli approvvigionamenti energetici, poiché i bacini idroelettrici e le piattaforme petrolifere diventano meno sicuri.
E, con il continuo rincaro dei vecchi combustibili fossili, le fonti alternative (tra cui le sabbie bituminose) si attestano come soluzione più «praticabile» dal punto di vista economico, ma ben più inquinante rispetto al petrolio convenzionale.
Nella nuova manche del «Grande Gioco», le carenze energetiche e il riscaldamento globale agiscono in perfetta sinergia. Il risultato non può che essere un rischio strisciante di conflittualità. Allora, il pianeta contava circa 1,65 miliardi di cittadini; oggi, ne ospita almeno quattro volte tanto.
Ognuno di essi lotta per il proprio futuro, in un mondo reso ormai irriconoscibile dal cambiamento climatico. La Storia ha in serbo altre «rime», non c’è dubbio. E sarà bene avvertirle per tempo.
*John Gray è autore di Black Mass: Apocalyptic Religion and the Death of Utopia (Penguin 2007).
Traduzione di Enrico Del Sero