Catturare la nebbia per dissetare il pianeta

Raccoglitori di nebbia, desalinatori batterici e serre irrigate grazie all’evaporazione di acqua marina. La scarsità di acqua dolce pone l’umanità davanti a una sfida immane, ma un mix di ingegno, tecnologia e vecchia saggezza contadina potrebbero regalarci la possibilità di vincerla. Il London Science Museum ospita in questi giorni (e fino alla prossima estate) “Water Wars” 1, una mostra che fa il punto sull’arsenale di invenzioni messe a punto negli ultimi anni per affrontare il crescente bisogno di risorse idriche.

In molti Paesi lo sfruttamento dell’acqua per le esigenze agricole e industriali è già al limite, ma l’incremento demografico (nel 2050 saremo probabilmente circa nove miliardi) e l’imprevidibilità dei cambiamenti climatici impongono di corrrere ai ripari quanto prima con soluzioni alternative. “La maggior parte di noi non si rende conto dell’enorme quantità di acqua di cui abbiamo bisogno per far crescere il nostro cibo, per una sola barretta di cioccolato occorrono l’equivalente di 13 vasche da bagno”, ricorda la curatice della mostra Sarah Richardson. Da qui la scelta di proporre all’attenzione del pubblico la portata del problema, ma anche le soluzioni più promettenti per risolverlo. Cinque metodi in tutto, già collaudati almeno in parte sul campo, spiegati nei dettagli del loro funzionamento, nelle loro potenzialità, ma anche nei dubbi che ancora non sono stati in grado di fugare del tutto.

Raccogliere la nebbia. E’ forse il sistema più promettente, anche in virtù dai costi molti contenuti visto che tra l’altro non ha bisogno di energia. L’idea è quella di rendere più efficiente e su grande scala il sistema già usato da alcune comunità locali nei Paesi in via di sviluppo. In particolare in Perù 4, in alcuni sobborghi di Lima, in mancanza di rete idrica la popolazione stende delle reti su un versante della montagna particolarmente esposto alle foschie. Con il passare delle ore queste reti si impregnano di microgoccioline d’acqua che finiscono per scolare in appositi contenitori. Risultati migliori si possono ottenere però con tessuti speciali ispirati al rivestimento pieghettato dello scarafaggio della Namibia, un vero esperto in questo campo visto che sopravvive grazie alla condensa che si forma sul suo dorso. Inoltre strutture più alte e meglio disegnate possono garantire un ulteriore salto di qualità. A Londra è esposta in particolare la storia dell’impianto costruito in Cile dall’architetto Alberto Fernandez e dalla designer industriale Susana Ortega: una torre per catturare la nebbia che entrerà in funzione nel 2012. Se le promesse fossero mantenute, il passo successivo sarebbe quello di salire ancora più in alto e raccogliere il vapore acqueo direttamente dalle nuvole di bassa quota.

Evaporazione marina. L’acqua regalata al deserto da un improvviso temporale evapora via in fretta sotto l’effetto del sole torrido e del vento, servendo a ben poco. Ma se invece venisse catturata? E se ad evaporare anziché preziosa pioggia fosse acqua marina? E’ da questa idea che è partito l’ingegnere Charlie Paton per realizzare, dopo 20 anni di esperimenti, le sua serre ad evaporazione marina. Al loro interno anche nel Sahara è possibile coltivare ortaggi con acqua salata che speciali attrazzature per favorirne e raccoglierne evaporazione e condensazione trasformano in acqua dolce. Secondo gli esperti della Ong britannica Oxfam, l’ostacolo per un impiego su larga scala di questa tecnologia sono i costi, ancora da verificare su larga scala, e le eventuali difficoltà politiche in aree del Pianeta afflitte da costanti conflitti.

Le scatole per piante. Tutto si basa sul principio che a sopravvivere meglio alla siccità sono quelle piante in grado di radicarsi più a fondo nel terreno. Da qui il tentativo di dare loro una mano con delle speciali scatole (una sorta di vasi high-tech da interrare insieme alla pianta) che intrappolano acqua e umidità, rilasciandola solo poco alla volta, permettendo la sopravvivenza anche in lunghi periodi senza precipitazioni e costringendo allo stesso tempo le radici a farsi strada verso il basso. Il brevetto esposto allo Science Museum è quello di Pieter Hoff. Per gli addetti ai lavori non ci sono dubbi che la cosa funziona. Del resto una pratica simile fa parte da sempre degli usi contadini in Nepal e Sri Lanka, dove si interrano dei vasi di terracotta che fanno trasudare l’acqua poco alla volta. I dubbi riguardano semmai i costi: al momento queste speciali waterbox costano 12 sterline l’una, decisamente troppo per gli agricoltori dei Paesi poveri. Andrebbero quindi realizzate in proprio artigianalmente con materiali a buon mercato. Cosa fattibile, ma da mettere a punto.

Desalinazione solare. La desalinazione dell’acqua di mare è già da tempo una risorsa alla quale ricorrono molti Paesi per ridurre il loro deficit idrico. Il problema sono i costi energetici. Ma dove c’è poca acqua c’è quasi sempre molto sole e a Cipro è in via di ultimazione il primo impianto di desalinazione alimentato da una centrale solare a concentrazione. Il progetto di George Tzamtis non è ancora entrato in funzione e c’è grande attesa per le sue performance. I problemi da superare sono stati molti. Il profilo accidentato delle coste cipriote non è certo il posto ideale per piazzare una centrale solare, ma soprattutto è stato necessario creare delle speciali condotte di scarico per evitare che la salamoia prodotta dal processo di desalinazione rischiasse di danneggiare l’ecosistema marino dell’isola. Sul fatto che sia questa la strada da percorrere grava in particolare lo scetticismo degli ambientalisti. “Ci sono metodi meno invasivi, più economici e molto più semplici per affrontare la crisi idrica”, sentenzia ad esempio il Wwf.

Desalinatore a batteri. Di tutte le tecnologie in mostra a Londra è la più futuristica. L’invenzione della Mdc (microbial desalination cell) è di Bruce Logan e parte dalla stessa esigenza della desalinazione solare: ricavare acqua dolce dal mare senza consumare energia tradizionale. A far lavorare questa cellula divisa in diversi comparti sono dei particolari batteri. Stipati in un contenitore e foraggiati con dei nutrienti, questi microrganismi per metabolizzare il cibo producono particelle a carica positiva che innescano una serie di reazioni a catena negli altri contenitori, con il risultato finale di “estrarre” sodio e cloro dall’acqua marina. Al momento la Mdc non è in grado di garantire applicazioni su larga scala, anche perché le sostanze date in pasto ai batteri sono piutosto care. La sfida successiva è quindi quella di riuscire a nutrirli con acque reflue di fogna, prendendo due piccioni con una fava.

Da Repubblica.it/ambiente