A roma il Palazzo delle Esposizioni celebra i 120 anni del National Geographic con una mostra dai mille volti: quelli di un pianeta infinitamente malato ma sempre più incredibilmente bello.
Gli schizzi di lava rovente intorno all’Etna dell’eruzione del 2001, ingranditi dall’obiettivo di Peter Carsten, assomigliano quasi a una foto del pianeta dal satellite. La statua di un Gesù crocifisso fissata da Joel Sartore portano subito alla mente il Brasile, ma in realtà la statua è altrove, nella Baton Rouge avvolta dagli scarichi delle fabbriche della Louisiana. E ancora un paesaggio idilliaco del fiume Potomac nella nebbia nasconde altri scarichi tossici, un biplano che vola sullo sfondo delle piramidi non è una foto d’epoca ma la replica di un viaggio storico, le miniere a cielo aperto della Serra Pelada non sono una finzione scenografica da un film apocalittico.
La Bella mostra AcquaAriaFuocoTerra, fino al 30 marzo a ingresso gratuito al Palazzo delle Esposizioni di Roma, non è solo un viaggio in 92 foto (per lo più inedite) nel mondo del National Geographic. Il percorso celebra i 120 anni della società che edita l’inimitabile rivista dalla cornice gialla e i 10 anni dalla pubblicazione del primo numero italiano, ma il senso dell’esposizione è più profondo, quasi filosofico.
Il visitatore scopre con sorpresa che tutte o molte delle sue certezze sul mondo che continuamente lo bombarda dagli schermi televisivi sono sgretolabili. Non conosciamo che una parte di pianeta, quella da un certo numero di catastrofi in su, quella più affollata di attentati e guerre. La mappa definitiva del pianeta ce la disegna implacabile e impetoso Google Earth, ma il tempo degli esploratori non è ancora terminato. Ci sono ancora immagini da catturare, fossero anche solo quella, stampata in un impressionante 2 metri per 3, di una bambina semplicemente felice, in Myanmar, all’arrivo delle prime piogge monsoniche. Ci sono storie ancora tutte da raccontare, come quella dei tintori indiani che rischiano la morte per malaria perchè l’acqua colorata di viola delle loro stoffe attira le zanzare anofele: vivere delle poche rupie pagate per i loro tessuti? Soccombere all’epidemia? Un dubbio angosciante che non trova spazione nelle nostre vite troppo comode. Anche negli scatti apparentemente meno impressionanti, nuvole sulle montagne del Wyoming, il rito commovente dei biglietti, carichi delle preghiere dei fedeli, abbandonate al vento tagliente del Tibet, una pellegrina irlandese a piedi scalzi sul Croagh Patrick, il senso dominante è lo stupore davanti ai mille volti di un pianeta infinitamente malato ma incredibilmente bello – una parola semplice che arriva dove quelle più complicate non possono. Turba così come commuove, questa Terra da difendere e da curare.
Non si parla solo di approccio ecologico, ma di una nuova forma mentis da coltivare, che abbia maggior rispetto per la dignità di ogni uomo e ogni donna di ogni nazione, così che nessuno debba più essere riratto mentre pesca immerso in acque torbide col proprio bambino legato sulla schiena, o mentre cerca cibo rovistando nella spazzatura. Un monito appassionato tanto quanto un omaggio che si vorrebbe ancora più ricco di immagini. Perchè c’è ancora tanto da vedere, lì fuori.
Da “Epolis Milano” del 19 febbraio 2008