L’acqua? Un bene con un prezzo

Nei percorsi didattici inustriali della storia europea ci imbattiamo sempre nell’argomento “acqua”: come forza motrice e strumento di lavoro nell’industria tessile e nelle prime fonderie, come detergente e refrigerante, e molto altro. Una delle questioni attualmente aperte è: è giusto comprare e vendere acqua come mezzo di produzione? E’ giusto addirittura imbottigliarla e offrirla ai consumatori?

In tutto il mondo l’acqua dolce proviene dal ciclo naturale dell’acqua, che viene pèompata dalle falde freatiche, molte delle quali contengono acqua fossile, che giacè li da millenni. Il 10% circa del consumo totale è destinato al bolancio familiare: 3-9 litri a testa al giorno per bere e cucinare, 30-50 litri per l’igiene, 80-250 litri per la cura del giardino, del prato e della piscina. Il 20% circa è destinato all’indurstria. Si calcola che a testa, per tutta la popolazione mondiale, circa 200 litri al giorno sono destinati alle centrali elettriche, 200 litri alle miniere – i coseddetti grandi consumatori – e all’industria di trasformazione, tra cui troviamo principalmente le industrie cartarie, di cellulosa, chimiche e le raffinerie. Sempre a livello mondiale il 70% viene utilizzato per l’agricoltura, con una media di un litro per ogni caloria: rispetto al nstro fabbisogno, noi consumiamo ancora 2-3 mila litri a testa in più.

Di recente invece, si è iniziato a produrre carburante dagli alimenti, utilizzando la simpatica denominazione “biodiesel” o “bioetanolo”. Per ogni litro di “biocarburante” sono necessari tra i 3mila e i 5mila litri d’acqua. Si capisce perchè c’è sempre bisogno di questa bella parolina “bio”. Ci sono innumerevoli possibilità per utilizzare l’acqua in modo più efficene, e ovunque, ma è necessario trovare gli stimoli giusti. Gli incentivi attualmente utilizzati, come le sovvenzioni per i grandi consumatori d’acqua, soprattutto l’agricoltura, causano in realtà l’effetto opposto.

Ho vissuto a lungo in America Latina, e proprio li possiamo trovare gli esempi di due differenti soluzioni: sovvenzioni e veridicità dei costi. Prendiamo l’esempio dell’Ecuador: l’acqua è un bene comune che viene sovvezionato, ciò significa che i costi delle infrastrutture sono coperti fino al 10 per cento. La conseguenza è lo spreco idrico: i progetti statali di irrigazione comportano costi che superano del 100% il valore del raccolto agricolo supplementare.

Opposto invece è l’esempio del Cile: già da secoli esistono i diritti idrici appartenenti a privati o all’ente pubblico locale. Essi permettono di stipulare delle ipoteche, per esempio per finanziare più efficacemente gli impianti di irrigazione; quando ci sono a disposizione più diritti di quelli effettivamente necessari – anche grazie all’attività di risparmio – questi possono essere venduti o affittati per un tempo determinato, o da un anno all’altro. L’acqua ha un prezzo di mercato.

Quale tra queste due agricolture ha ora più successo? Quella ecquadoregna, basata sulle sovvenzioni, oppure quella cilena, che sopporta costi alti e si abbandona alle rigide correnti del mercato? La risposta è : quella del Cile, dove gli agricoltori si innovano e migliorano continuamente. Le loro esportazioni sono aumentate con una velocità tre volte superiore a quelle dell’Ecuador, con percentuali di crescita a due cifre (1967-96: 17% all’anno per il Cile, 5% all’anno per l’Ecuador). Perchè ci interessano queste questioni?

Noi non produciamo un prodotto alimentare, ma lo trasformiamo; noi abbiamo bisogno di acqua per i processi, i nostri consumatori ne hanno bisogno per cucinare i nostri piatti pronti e, non da  ultimo, noi pensiamo alla rpotezione delle nostre sorgenti. Quando un bene scarseggia, dobbiamo cercare di moltiplicarlo e consegnarlo di chi pensa imprenditorialmente: questo vale anche per l’acqua.

Di Peter Brabeck-Letmathe da “il Sole 24 ore” del 9 dicembre 2007