L’industria della moda inquina le acque cinesi


Il rapporto “Cleaning up the fashion industry”, (per ora disponibile solo in cinese) sullo stato dell’inquinamento delle acque in Cina voluto da cinque organizzazioni ambientaliste locali, sta preoccupando l’industria pesante della moda occidentale.
Spiega Ma Jun attivista cinese e presidente dell’associazione IPE – Institute for Public & Environmental Affairs:

L’industria tessile cinese elabora quasi la metà della fibra mondiale e esporta il 34% dei suoi capi; contribuisce notevolmente al PIL del paese, ma prende anche un pesante tributo per l’ambiente scaricando 2,5 miliardi di tonnellate di acque reflue all’anno nei fiumi, nei laghi e il mare.

Secondo la mappa dell’inquinamento stilata dalle associazioni (Institute for Public & Environmental Affairs, Green Beagle, Envirofriends e Nanjing Green Stone,Friends of Nature) sono interessate oltre 6000 fabbriche tessili!
La maggior parte di loro produce per firme internazionali ed estere.
Ma Jun ha chiesto assieme alle altre quattro associazioni ambientaliste, attraverso una lettera inviata agli amministratori delegati di 46 multinazionali della moda, di impegnarsi a controllare che l’outsourcing, ossia le fabbrichette a cui affidano la loro produzione siano a norma con la tutela ambientale e la protezione delle acque.

In molti hanno risposto positivamente (la lista), come riferisce lo stesso Ma Jun:

Nike, Walmart, Esquel, H & M, Levi’s, Adidas e Burberry hanno elogiato gli sforzi e promesso di prestare attenzione al fatto che imprenditori cinesi usino tecnologia ecologica per le loro produzioni. Nike ha detto di voler sollecitare la riduzione dell’impatto ambientale nel proprio processo produttivo. Adidas ha promesso di sollecitare i fornitori cinesi che non rispettano le regole di tutela ambientale arrivando anche alla risoluzione dei contratti.

C’è però chi si è rifiutato di rispondere in merito alle richieste e come riferisce lo stesso Ma Jun:

Zara si è rifiutata spiegando che era la sua politica non rispondere alle domande che riguardano il suo modello di business. Altre trentadue società tra cui Marks & Spencer, Esprit, Calvin Klein, Armani, Carrefour e Anta e Youngor, non hanno ancora risposto.

Ma ha anche sollecitato le autorità cinesi a implementare il monitoraggio sull’inquinamento delle industrie tessili e a incentivare la produzione ecologica e sostenibile. In tutto questo bellissimo discorso però, manca forse un punto decisamente fondamentale: i diritti dei lavoratori, le loro paghe, gli orari, la tutela della loro salute e della loro sicurezza. Ma questo è un altro discorso che merita approfondimento!