L’umanità è andata in rosso. La Terra anche quest’anno dovrà farle credito, ma è un’operazione ad alto rischio e non può durare a lungo, perché altrimenti si va alla bancarotta ecologica. Questo è l’allarme lanciato dal Network mondiale dell’impronta ecologica, che calcola l’impatto che esercitiamo su terreni agricoli, pascoli, foreste e zone di pesca e lo mette a confronto con la capacità che quegli ecosistemi hanno di generare nuove risorse e assorbire i rifiuti che produciamo. Risultato: la domanda dell’uomo supera di circa un terzo le capacità del pianeta. Consumiamo l’equivalente delle risorse generate da 1,3 Terre. E siccome ne abbiamo una sola, quello 0,3 di troppo può essere immaginato come una sorta di debito contratto con l’ecosistema.
«L’umanità vive oltre i limiti della sua carta di credito ecologica – dice Mathis Wackernagel, direttore del Network –. E se spendere più soldi di quelli che hai in banca porta ad accumulare un debito finanziario, usare più di quello che il pianeta riesce a ricreare ogni anno crea un debito ecologico e nel tempo conduce all’esaurimento delle risorse fondamentali su cui si basa l’economia umana ». Da metà degli anni ’80, dicono gli studi sull’impronta ecologica, l’uomo consuma più risorse di quante la Terra ne produca. La progressione è stata tale che se nel ’96 il sovrasfruttamento era del 15% e il debito ecologico cominciava ad accumularsi a novembre, oggi siamo a una quota di risorse consumate che eccede del 30% quelle a disposizione e il «giorno del debito ecologico », in cui si calcola siano esaurite le risorse che il pianeta può produrre nel corso dell’anno, scatta il 6 ottobre. Era ieri.
L’IMPRONTA ECOLOGICA — Certo, tutto questo è valido se si accetta di ragionare in termini di impronta ecologica. Cioè se si prende per buono questo indicatore di sostenibilità ambientale «sintetico» (perché tenta di integrare informazioni di natura diversa fra loro), che come unità di misura usa l’ettaro di territorio biologicamente produttivo, ed è continuamente cambiato e raffinato dai ricercatori che lo applicano. Nessun governo e nessuna agenzia dell’Onu adottano sistemi per valutare quanto sia esteso l’utilizzo umano della natura rispetto alla capacità degli ecosistemi. Lo fanno alcuni ecologi, e spesso i risultati che ottengono presentano differenze molto significative. «È un metodo che ha scatenato molti dibattiti tra gli studiosi della sostenibilità», ammette un ambientalista come Gianfranco Bologna, del Wwf Italia. E in effetti, il sistema è complicatissimo. Analisi sui consumi di cibo e materiali; sulla quantità di energia «contenuta » in un paniere di prodotti commercializzati nel mondo e su quella generata localmente; stime sulla biocapacità dei vari Paesi. Così viene misurata la superficie terrestre o marina necessaria a produrre le risorse che una data popolazione utilizza e — nel caso dell’energia — la superficie che serve ad assorbire l’anidride carbonica. Ma brutalizzando si tratta della somma di 6 ingredienti: terra coltivata per produrre cibo, aree di pascolo usate per avere prodotti animali, foreste necessarie a fornire legname e carta, superfici marine sfruttate per avere pesci e alimenti in genere, terreni necessari a ospitare le infrastrutture edilizie; foreste che servono ad assorbire le emissioni di Co2.
GLI INIZI — Il primo a pensarci fu William Rees, ecologo dell’Università di British Columbia (Canada). Con Mathis Wackernagel, alla fine degli anni ’80, tentava di superare al cuni problemi legati al calcolo della «capacità di carico» della specie umana, che negli studi di ecologia misura la quota massima di popolazione che una determinata area può sopportare. Invece di chiedersi quante persone può sopportare la Terra, Rees e Wackernagel si domandarono quale area di territorio produttivo fosse usata da una popolazione. Un esempio: gli italiani, considerati i livelli di consumo e la produzione di scarti, si appoggiano su un’area di ettari biologicamente produttivi che è grande tre volte lo stivale. «Abbiamo un’impronta quasi doppia rispetto alla media mondiale — spiega Simone Bastianoni, dell’Università di Siena —. Se tutti gli abitanti della Terra avessero uno stile di vita e un livello di consumopari al nostro per soddisfare le loro necessità servirebbero 2,3 pianeti».
L’idea è questa: non conta solo il numero delle teste (la popolazione), ma anche la dimensione dei piedi (quanto si pesa sulla Terra). Il rapporto Living Planet 2006 dice che la biocapacità dell’ecosistema mondiale è di 1,8 ettari produttivi pro capite, mentre l’impronta è di 2,2. Con enormi differenze da Paese a Paese. Gli Usa hanno una biocapacità pro capite di 4,7, un’impronta di 9,6 e quindi un deficit di 4,8, mentre il Brasile, ha biocapacità per 9,9 ettari produttivi pro capite e un’impronta di 2,1, con saldo ampiamente attivo. L’Italia, manco a dirlo, è messa male: poche risorse, 1,0, impatto al 4,2, debito ecologico fissato a -3,1 ettari di territorio biologicamente produttivi pro capite. Di solito, a questo punto, chi segue le nostre impronte sul Pianeta dice che consumi «fuori budget » come questi sono possibili perché miliardi di persone hanno accesso a una quota irrisoria delle risorse. E anche così sono insostenibili.
Da “Repubblica” del 7 ottobre 2007